Associazione Fornitori Ospedalieri Regione Puglia

Pne 2017: migliora la qualità delle cure e si riduce il divario Nord-Sud – Bene la Puglia

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(di Rosanna Magnano (da Ilsole24ore.com) – Un sistema sanitario che riduce il divario Nord-Sud e che nonostante la crisi economica e i piani di rientro regionali “tiene” sul fronte della qualità delle cure e migliora, anche se di poco, su parametri importanti, come la mortalità per infarto entro i 30 giorni, passata dal 10,4% del 2010 all’8,6% del 2016 facendo svettare l’Italia al secondo posto dopo il Canada tra i Paesi Ocse, o come i bassi numeri delle ospedalizzazioni per malattie a prevalente gestione territoriale come il diabete, l’asma e la Bpco. Ma con molto lavoro da fare su indicatori classici, come tagli cesarei e fratture da trattare tempestivamente, aree dove il sistema sanitario migliora ma è ancora al di sotto degli standard internazionali. E’ questa la fotografia scattata dal Programma nazionale esiti 2017 presentato questa mattina all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas).

 

Il Sud si avvicina al Nord, ma Campania e Molise restano al palo
“L’istantanea del Pne 2017 ci restituisce un progressivo miglioramento della qualità dell’assistenza nel nostro Paese e, in particolare, un Sud che si avvicina, benché gradualmente, alle Regioni del Nord, conseguendo risultati di miglioramento buona parte delle aree cliniche, tradizionalmente critiche, come l’ortopedia, la perinatale e dell’apparato digerente”, sottolinea il Luca Coletto, Presidente Agenas. Tra le regioni che si sono impegnate di più, la Sicilia, la Sardegna e la Puglia. “Ma anche la Calabria, che fino a due anni fa non aveva una rete di punti nascita – spiega Mario Braga Coordinatore delle attività del PNE – ha lavorato per una profonda riorganizzazione”. In stallo invece, Molise e Campania, che non hanno registrato miglioramenti rilevanti su nessun fronte.

“Se spostiamo l’obiettivo sui volumi di attività – aggiunge Francesco Bevere, Direttore Generale di Agenas – i progressi, seppure ancora timidi, riscontrati dal PNE, testimoniano che abbiamo intrapreso la strada giusta e che la riorganizzazione in reti del sistema dell’offerta sanitaria, che vede l’Agenzia svolgere un ruolo di coordinamento in applicazione del DM 70, consentirà già nel prossimo anno di registrare ulteriori miglioramenti e di ridurre ulteriormente quella disomogeneità di cure tra e dentro alcune Regioni”.

 

Il faro dei volumi di attività
Se l’Agenas ribadisce di non avere il compito di avallare classifiche tra le strutture, un consiglio emerge chiaro per i pazienti: evitare di farsi operare dove i volumi di attività sono molto bassi. Perché è statisticamente più probabile che l’assistenza non sia di livello adeguato. “A seguito di una recente revisione delle evidenze disponibili – spiega l’Agenzia – i responsabili di tre importanti sistemi ospedalieri americani hanno lanciato, attraverso il New England Journal of Medicine, una campagna per l’impegno della comunità scientifica ad evitare di effettuare interventi chirurgici complessi da parte di strutture o chirurghi con volumi di attività molto bassa. L’associazione tra volume ed esiti per diverse condizioni è confermata anche dall’analisi dei dati empirici nazionali”.

E ci sono alcune soglie di riferimento da tenere a mente prima di scegliere dove farsi curare: per esempio per il tumore al polmone, la mortalità diminuisce drasticamente negli ospedali in cui si effettuano 50-70 operazioni all’anno, per le breast unit il livello minimo è di 150 interventi l’anno, per il tumore allo stomaco bisogna rivolgersi a strutture che effettuano almeno 20-30 operazioni annue. Per la colicistectomia laparoscopica la soglia è di 100 interventi.

 

In arrivo le pagelle dei singoli chirurghi
“A breve, entro due anni – assicura Braga – si aggiungerà anche la valutazione sul singolo operatore, con l’andata a regime delle nuove Schede di dimissione ospedaliera (Sdo)”. A partire da gennaio dell’anno prossimo, dovrebbe infatti essere possibile misurare il volume di attività per singolo chirurgo, così come previsto dal Decreto ministeriale relativo all’integrazione delle informazioni della Sdo. L’obiettivo è quello di accreditare il singolo professionista sul modello di quanto realizzato dalla provincia autonoma di Bolzano per l’area oncologica.

 

Ancora troppi parti cesarei
Lontani dal traguardo nelle maternità. Tra medicina difensiva e pregiudizi diffusi sul parto naturale, l’Italia scalfisce con fatica la montagna dei cesarei, che secondo l’Oms dovrebbero restare al di sotto del 15 per cento. Va segnalato però che la proporzione di parti cesarei continua a scendere progressivamente dal 29% del 2010 al 24,5% del 2016 (per la prima volta sotto la soglia del 25%), con differenze importanti all’interno di ogni singola regione e tra le regioni. I valori per struttura ospedaliera variano infatti da un minimo del 6% ad un massimo del 92%. La maglia nera resta alla Campania, seguita da Molise e Il miglioramento c’è stato: si stima che dal 2010 siano circa 58.500 le donne alle quali è stato risparmiato un taglio cesareo primario, di cui 13.500 nel 2016.

 

La fuga delle mamme dai piccoli ospedali
E se gli ospedali di campanile, vicini ma insicuri, sono duri da chiudere per i sindaci, ci pensano le mamme a fare la selezione. Escludendo le strutture con meno di 10 parti annui, nel 2016 in Italia le strutture ospedaliere con meno di 500 parti annui sono 97 (21%), effettuando complessivamente solo il 5,7% dei parti totali; nel 2015 erano 118 (24%). Una scelta saggia da parte delle partorienti dal momento che evidenze scientifiche associano bassi volumi a esiti sfavorevoli. E il regolamento del Ministero della Salute sugli standard quantitativi e qualitativi dell’assistenza prevedeva già nel 2010 la chiusura delle maternità con meno di 500 parti.

 

Malati oncologici con la valigia
Ancora troppi in certe regioni i pazienti oncologici costretti a viaggiare per sottoporsi a interventi chirurgici. Un esempio fra tutti, il tumore al seno. Nel 2016, delle 424 strutture ospedaliere che eseguono più di 10 interventi chirurgici per il tumore della mammella, solo 140 (33%) presentano volumi di attività in linea con lo standard (erano il 27% l’anno precedente). E se si analizza il dato per Unità Operativa, la proporzione si riduce di molto: nel 2016 dei 521 reparti che effettuano più di 10 interventi/anno, 130 (25%) eseguono almeno 150 interventi. Nonostante nel 2015, la proporzione fosse del 21%, nell’ultimo anno di valutazione ancora 3 unità operative su 4 non rispettano lo standard atteso, effettuando il 35% degli interventi complessivi su base nazionale. Il che si traduce in forti disparità di accesso alle terapie. E le conseguenze sono i viaggi della speranza. Nel 2016 mentre l’86,4% delle donne residenti in Puglia con tumore maligno della mammella ha eseguito l’intervento chirurgico nella propria regione, il 46% delle donne calabresi con carcinoma della mammella si è rivolta a strutture di altre regioni.

 

Fratture, lavori in corso sui tempi
Un classico indicatore molto importante è anche l’intervento chirurgico entro due giorni della frattura al femore, un problema che rientra tra le 10 maggiori cause di disabilità. E su questo fronte il quadro migliora: la proporzione di fratture del collo del femore sopra i 65 anni di età operate entro due giorni è passata dal 31% del 2010 al 58% del 2016. Ma sono ancora troppe le strutture al di sotto degli standard internazionali, che fissano una soglia all’80%, valore rispettato solo in 60 centri. Il ministero della Salute ha fissato un limite del 60% e sono 245 gli ospedali in linea. Fuori target sono invece 195 strutture di cui 40 con proporzioni inferiori al 20%. L’indicatore è di peso, perché l’intervento tempestivo sulla frattura del collo del femore nell’anziano, riducendo la mortalità e l’insorgenza di complicanze post-operatorie, determina una minore durata del dolore e migliora il recupero degli outcome, consentendo di controllare ricadute economiche e sociali.

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